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sabato 21 febbraio 2015

Pietracamela, il paese che resiste!

Sulla panchina della piccola piazza di Pietracamela mi godo aria e panorama.
Nel silenzio sento gorgogliare il fiume.
All'improvviso mi sfreccia davanti una volpe. Attraversa la strada, si rifugia dietro una roccia della piccola cascata sul primo tornante per i Prati di Tivo.


Corre con una tale furia che le zampe si disarticolano creando una sorta di cartoon Disney.
Infine fugge definitivamente risalendo la piccola china con la coda dritta, vaporosa che pare il pennacchio di un antico principe.
Un sorriso che attenua la stretta al cuore.

È ridotta male l’antica “Petra” e “Cameria”, perla del teramano, nel cuore dell’antica via Cecilia, costruita molto prima di Cristo.
Il villaggio da fiaba di un tempo, con il suo tessuto urbano singolare, a intrecciare chiese, campanili a vele, fondaci ricavati dalla roccia e palazzotti vecchi come Noè, soffre ancora e terribilmente, i disastri del sisma del 2009.

La fiaba non ha avuto un lieto fine.
La magia si è trasformata in un maleficio.
Se il paese avesse un’anima urlerebbe all'infinito il suo dolore.

Sono ormai una manciata gli abitanti che osano continuare a sfidare gli elementi naturali.
Se ci si mettesse a contarli questi intrepidi non arriveresti a cinquanta.

Fin quando però dai comignoli vedremo uscire volute continue di fumo, il paese vivrà.

Quello è il segnale che qualche custode vigila e veglia.
Tutto si sta accanendo da anni contro questo splendido abitato.

Le viscere delle guglie dei Corni hanno traballato per la violenza di una faglia mortale; la pioggia ha fatto venire giù pietre e fango, coprendo parte dell’incantevole sentiero che porta ai Prati di Tivo.
Il paese di pietra muore e tutti recitano il “de profundis”.

Secondo i censimenti negli anni ’30 qui si era in circa duemila anime, negli anni ’90 si scese a duecento.
Oggi sono una manciata di volti.
La nascita di un bambino, da queste parti, sarebbe un evento storico. Lo sarebbero ancor più delle nozze.
Oggi, fuori stagione, si fatica a scambiar chiacchiere. Ci sono rimasti solo una teoria di solidi tronchi a emanare un balsamo di resina corroborante.
Questo è un paradiso in terra, immerso nella quiete dei boschi di faggio, tra le possenti rocce del Gran Sasso.

Per rivitalizzarlo tutti si inventano ricette.
Da anni si parla di trenini a cremagliera che salgono montagne attraverso sterrate da Forca di Valle da rendere fruibili, o tunnel foranti i monti. I progetti sono solo sogni!

Le poche persone rimaste, però, ne vanno fiere.

Gli uomini e le donne di montagna sono aggrappati alle loro realtà come licheni che si adattano a ogni circostanza.
A Natale, però, insieme al Bambino Gesù, rinasce anche questo piccolo borgo che si riempie di turisti e familiari in festa.

Luogo storico dell’Abruzzo Ultra durante il Regno di Napoli apparteneva nel secolo XII al feudo della Valle Siciliana di proprietà dei Conti di Pagliara.
In seguito passò ai Conti Orsini che furono padroni sotto Angioini e Aragonesi fino a che Carlo V nel 1526 lo consegnò al marchese Mendoza fino all'abolizione della feudalità.
Qui un tempo si lavoravano i metalli, si batteva il rame, si pettinava la lana.
I cardatori del paese erano famosi fino in Toscana e nell'Emilia.

Erano famosi anche i “sediai” che usavano materie prime locali, legno di faggio e paglia e i “casari” che, con sapienza, bollivano il latte della munta per porlo nelle “fuscielle”.
La crisi cominciò a mordere sin dalle ultime battute dell’ottocento.
La pastorizia transumante fu decimata dal progresso verso le zone di mare, da tasse e balzelli vergognosi e dalla progressiva messa in coltura delle distese pugliesi del Tavoliere.
Un esodo biblico portò i pretaroli verso gli States, l’Argentina, l’Australia. I più fortunati emigrarono nel Lazio.

A Pietracamela, sono tanti i gioielli: il piccolo portale di San Giovanni, il campanile a vela, la meridiana e l’orologio, la chiesa di San Rocco, la casa de “li Signuritte” con le bifore del 400, lo stemma civico cinquecentesco, la piazza Cola da Rienzo cui sembra che il paese abbia dato i natali, la parrocchiale di San Leucio, l’antico vescovo di Alessandria.

Ginetta, quasi novantenne, se ne sta seduta sulla panchina con il ghigno di chi si chiede cosa ci faccia da quelle parti.

Sul suo volto brillano due occhi astuti, dallo sguardo ancora acuminato come lama di stiletto.


I corvi, intanto, tra gli inestricabili intrecci di rami sotto la piazza, rompono il silenzio con i loro versi strazianti.
I cra cra sono l’uno in sintonia con gli altri.
La vecchina con la voce stridula, scacciando una mosca inopportuna dal viso, mi dice: “O Rufflè mè, - che significa ragazzo mio - qui ci sta cchiù corvi che ommini”.

Anche se qui venissero cento cataclismi, lei sarebbe sull'uscio della sua casa ad attenderli.
Perché è una “pretarola” e di quelle che se ne infischiano delle rilevazioni demografiche che indicano un paese che muore.


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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
Sul blog "Paesaggio Teramano" possibilità di visionare o fare il download dei numeri della rivista già pubblicati.
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sabato 14 febbraio 2015

Una chiesa poco conosciuta ... e un congegno segreto che porta a Roma

Grazie all'amico Fabrizio Primoli! Suo l'articolo e sue le foto!

La disadorna facciata della chiesa dei frati cappuccini, a Teramo, costituisce uno dei più curiosi inganni che talvolta il mondo della storia dell’arte riserva a chiunque abbia modo di accostarsi alla visita e allo studio di un’opera architettonica.
Nulla, quel semplice prospetto frontale, rivela in realtà di ciò che questo gioiello architettonico custodisce al suo interno, né della sua storia. Storia che ha attraversato, certamente non indenne, i secoli e le vicende locali e nazionali.

Nata nel lontano 819 come complesso conventuale dedicato a San Benedetto, questa struttura ha ospitato nel 1570, dopo la partenza dei benedettini, i padri gesuiti e, cinque anni dopo, i frati cappuccini che lo abitarono fino alla soppressione del convento, avvenuta nel 1866 a seguito dell’incameramento dei beni ecclesiastici da parte dello Stato italiano da poco costituitosi.

Un tempo assai più vasta di come appare oggi, la struttura ha subìto nei secoli tanti e tali rimaneggiamenti, ognuno dei quali ispirato alle logiche e alle concezioni dell’ordine che al momento la gestiva, che ne hanno profondamente alterato l’originario assetto.


Dotato di orti, di cortili e di fabbricati accessori, questo si estendeva un tempo sino ad occupare parte dell’attuale Piazza Dante Alighieri e il Palazzo della Provincia.

Con la partenza dei frati cappuccini, nel 1866, le strutture del soppresso convento subirono sorti diverse: alcuni locali vennero destinati ad ospitare il nuovo Orfanotrofio “Regina Margherita”, altri furono alienati, altri ancora furono completamente urbanizzati e destinati all'ampliamento di aree esterne di pubblica fruizione.
La chiesa, invece, rimase aperta al culto e continuò a funzionare per lo scopo per il quale venne concepita ab origine.

Riguardo a questa, che pure nei secoli precedenti si trovò a subire trasformazioni imponenti, dalle fonti storicamente attendibili emerge che fu nel periodo della presenza dei frati cappuccini che venne eliminata l’originaria ripartizione in tre distinte navate, attraverso la sistemazione in aula unica con distinte cappelle laterali, a loro volta ricavate suddividendo l’originaria navata destra.

La facciata, come detto, è estremamente semplice. Realizzata in laterizio e travertino, presenta al centro un portale sormontato da una lunetta a doppia cornice: decorazioni con mattoni squadrati nella prima, con rombi in laterizio nella seconda.

L’interno del tempio, così stridente con la semplicità della facciata, è assai ricco di opere d’arte che, nel corso dei secoli, gli ordini religiosi e i fedeli comandarono. Ammiriamo così, sulla parete sinistra, una pregevole tela del 1661, opera del veneziano Pietro Gaia, raffigurante il Cristo crocifisso ai cui lati si ergono San Francesco e San Berardo, che offre in dono la Città di Teramo.

Di sicuro impatto visivo è comunque il monumentale altare ligneo, addossato all'abside rettilineo della chiesa: capolavoro del barocco, venne realizzato nel 1762 dall'ebanista Giovanni Palombieri.
Interamente in legno di noce, l’altare è dotato di due colonne a capitello corinzio che suddividono l’area verticale in tre settori, ognuno dotato di due pannelli, anch'essi in legno, dipinti con grande maestria e raffiguranti la Vergine contornata da San Benedetto e San Francesco, nella pala centrale, e diversi santi nei settori laterali.

Questa grande opera centrale, anch'essa a firma di Pietro Gaia, risale ai primi anni del XVIII secolo ed è posta esattamente dietro uno dei più spettacolari capolavori lignei della chiesa: il tabernacolo.
Opera di Giovanni Palombieri, è ad andamento verticale, in forma di piccola cappella, ed è riccamente intarsiato e decorato attraverso un sapiente utilizzo di vari tipi di legno: noce, in principal modo, con aggiunta di elementi in acero e ulivo.

Opere senz'altro di grande impatto visivo, questo altare e questo tabernacolo rappresentano difatti autentici capolavori della scuola dei cosiddetti “maestri marangoni”, veri e propri artigiani dell’arte della scultura lignea, assai vicini all'ordine dei frati cappuccini, di gran lunga autorevoli nel centro Italia e attivi soprattutto a cavallo fra il XV e il XVI secolo.

Esiste tuttavia una interessante curiosità su questo altare che non tutti i teramani conoscono.

Tipiche realizzazioni dei “maestri marangoni”, per l’appunto, tali grandiosi altari lignei costituiscono altresì uno straordinario esempio di ingegneria: una serie di congegni meccanici azionabili manualmente permette difatti di far scorrere su binari, invisibili dall'esterno, i pannelli che ornano l’altare stesso.

I dipinti posti lateralmente, i cassettoni, i pannelli delle sovrapporte sono tutti elementi in grado di scorrere orizzontalmente e, scomparendo dietro vani occultati, aprono alla vista nicchie e armadi nascosti normalmente invisibili.

All'interno di essi, nella nostra chiesa dei frati cappuccini, sono tuttora conservate decine e decine di preziosi reliquiari, sconosciuti ai teramani, che contengono centinaia di ossa e di resti mortali dei confratelli dell’ordine che abitava il convento e dei relativi fedeli.


Una quantità incredibile di rotule, vertebre, frammenti di ossa lunghe e altre reliquie che i frati cappuccini, da sempre dediti a questa pratica religiosa, hanno avuto modo di conservare intatti.

Siamo in presenza, in sostanza, di una minuscola replica, pur con le dovute proporzioni, di quanto è presente nella cripta della chiesa di Santa Maria della concezione dei cappuccini, in Via Veneto a Roma, nella quale interi ambienti sono decorati con ossa provenienti dai cimiteri dell’epoca.

Potrebbe apparire un paragone azzardato, forse, eppure, se ci si riflette bene, in entrambi i casi si tratta di una medesima opera.
Condotta con le medesime tecniche.
E ad opera del medesimo ordine religioso.

Sotto la croce di Cristo, in fondo, le distanze non contano neppure più.


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Articolo di Sergio Scacchia pubblicato sul blog Paesaggio Teramano collegato alla rivista omonima.
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